La Terra è nostra madre
Ecologia profonda dei nativi americani e permacultura per superare la crisi sociale e ambientale globale
La forte cultura antropocentrica di origine biblica che caratterizza l’uomo occidentale e cosiddetto “sviluppato” ci sta portando lentamente all’estinzione. Crisi ambientale, economica, sociale, politica e culturale sono sempre più evidenti, eppure ci troviamo impreparati nel trovare soluzioni reali ed efficaci.
La verità, purtroppo, è che non esistono soluzioni se rimaniamo prigionieri della nostra cultura. Le soluzioni che ci vengono prospettate dai media e dai governi hanno la stessa matrice di pensiero che ci ha portato alla situazione odierna: considerano gli esseri umani come separati dalla Natura, alla quale attribuiscono soltanto un valore strumentale o di sfruttamento.
Albert Einstein diceva che «non possiamo risolvere i problemi con lo stesso tipo di pensiero che abbiamo usato quando li abbiamo creati». Aggiungo questa frase emblematica di Ippocrate: «Prima di cercare la guarigione di qualcuno, chiedigli se è disposto a rinunciare alle cose che l’hanno fatto ammalare». L’ecologia di superficie, quella mainstream con la quale ci stanno bombardando, si basa sullo stesso paradigma che ci ha portati dove siamo oggi e difficilmente sarà in grado di risolvere qualcosa. Con questo ovviamente non intendo dire che le pratiche ecologiche di superficie siano da scartare, ma dovrebbero essere solo un passaggio verso qualcosa di più profondo che ci riporti ad essere parte integrante di un organismo più grande, piuttosto che cellule cancerogene come siamo oggi.
I nativi e la Permacultura
Siamo abituati a considerare i problemi alla luce della brevissima esperienza della civiltà industriale, una frazione minima dell’esperienza umana. Tutto ciò che arriva dalle altre culture, anche se millenarie e quindi molto più resilienti di noi, viene considerato sbagliato o superato a priori.
Le soluzioni ai problemi del terzo millennio invece potrebbero arrivare proprio da quei popoli che abbiamo sempre considerato “sottosviluppati” e che invece si stanno rivelando molto più lungimiranti di noi. La permacultura, ad esempio, suggerisce di concepire gli insediamenti umani come degli ecosistemi, traendo ispirazione dall’osservazione della natura e del modo in cui le popolazioni indigene abitano la Terra. In quest’ottica i nativi, invece che primitivi, possono essere visti come un faro per il nostro futuro. Essi vedono la terra come un essere vivente sacro.
Non separano gli uomini, né ogni altra cosa, dall’ambiente naturale, tant’è che per i nativi era del tutto illogico dare un valore monetario alla terra in cui vivevano. A tal proposito, sono emblematiche le parole di Capo Giuseppe della tribù dei Nasi Forati rivolte al governatore americano che gli proponeva un trattato con cui negoziare la proprietà della loro terra: «La terra ed io siamo dello stesso parere. Le dimensioni della terra e le dimensioni dei nostri corpi sono le stesse. Diteci, se potete dirlo, che siete mandati da una Potenza Creatrice a parlare con noi. Forse voi pensate che il Creatore vi ha mandati qui a disporre di noi come meglio vi pare. Se io pensassi che voi siete inviati dal Creatore, potrei essere indotto a pensare che avete il diritto di disporre di me. Non fraintendetemi, ma capitemi pienamente tenendo conto del mio amore per la terra. Io non ho mai detto che la terra è mia per farne ciò che mi pare. L’unico che ha diritto di disporne è chi l’ha creata. Io chiedo il diritto di vivere sulla mia terra e di accordare a voi il privilegio di vivere sulla vostra».
Sono una pietra, ho visto vivere e morire, ho provato felicità, pene ed affanni: vivo la vita della roccia. Sono parte della Madre Terra, sento il suo cuore battere sul mio, sento il suo dolore, la sua felicità: vivo la vita della roccia. Sono una parte del Grande Mistero, ho sentito il suo lutto, ho sentito la sua saggezza, ho visto le sue creature che mi sono sorelle: gli animali, gli uccelli, le acque e i venti sussurranti, gli alberi e tutto quanto è in terra e ogni cosa nell’universo – Preghiera Hopi
La visione del mondo dei nativi
I nativi celebrano la terra come origine della loro stessa vita, una madre che dona il suo corpo per il nutrimento dei suoi figli. Quando uno di essi muore ritorna nel grembo della terra, lo stesso grembo da cui è nato. La conservazione delle risorse naturali e dell’equilibrio ecologico sono la garanzia della loro stessa esistenza. Piante, animali, rocce partecipano con gli uomini alla vita sulla terra. I nativi si rivolgono ad essi come a loro fratelli in quanto nati dalla stessa madre e concepiti dal Grande Spirito. Solo nella relazione con la natura l’uomo ritrova se stesso e il senso della vita.
Per questo i nativi non abusavano delle risorse messe a disposizione dalla terra e consumavano solo ciò che era necessario per la sopravvivenza. Sono celebri le scene del film Balla coi Lupi in cui si cerca di rappresentare questo concetto nella caccia al bisonte. I nativi americani che abitavano le grandi pianure ne abbattevano solo il numero sufficiente per nutrirsi e utilizzavano ogni parte dell’animale: la carne per l’alimentazione, la pelle per riscaldarsi, le corna e le ossa per costruire utensili.
Alla caccia seguivano sempre rituali animati da sentimenti di rammarico per la morte dell’animale e di gratitudine per il sostentamento che esso offriva. Dal punto di vista biologico questo modo di cacciare si inseriva perfettamente nell’ecosistema. La preservazione era applicata anche agli stessi uomini: i conflitti fra le diverse tribù avvenivano spesso, ma non erano quasi mai mortali. Durante la lotta, per non causare morti inutili, si usava “contare i colpi”, ovvero avvicinarsi il più possibile e colpire anziché abbattere l’avversario.
La terra non appartiene all’uomo, è l’uomo che appartiene alla terra. – Capriolo zoppo, capo della tribù dei Dwamish
La comunità era fondata sul mutuo sostegno e sulla cooperazione: tecnologie semplici, costumi spirituali e organizzazioni politiche sostenibili, sane ed integre. Presso le tribù native le donne godevano di uno stato di pari dignità rispetto alla componente maschile della tribù, sebbene non mancasse una netta divisione dei compiti nel lavoro quotidiano. Prima dell’arrivo dell’uomo bianco non conoscevano il concetto di “stato sociale”, mancava l’idea di una rigida gerarchia di potere. Nessun membro della tribù era obbligato a lavorare o a pagare tributi per gli altri: ciascuno lavorava secondo i propri bisogni, e quelli della famiglia.
Nessuna tribù possedeva un corpo di polizia, delle prigioni o un potere giudiziario che esercitasse la repressione sulla base di un’autorità superiore e vincolante rispetto ai singoli membri. Le scelte per la comunità erano prese dal Gran Consiglio Tribale che solitamente era presieduto dagli anziani, detentori della saggezza. In alcune tribù, esisteva un’istituzione, detta il Consiglio delle Madri, che i rappresentanti del Gran Consiglio Tribale erano obbligati a consultare prima di prendere decisioni e in ogni caso le scelte più importanti venivano fatte sulla base del consenso generale.
Ricostruire la cultura nativa: ecovillaggi e transition town
Oggi gli ecovillaggi, i movimenti per l’ecologia profonda, la decrescita felice, le transition town, i progetti che si ispirano alla permacultura stanno cercando con non poca difficoltà di riscoprire questo antico modo di vivere e tornare a esaltare le virtù di semplicità, sobrietà, onestà e lungimiranza che caratterizzavano le comunità dei nativi d’America. Cancellare il condizionamento di 2.000 anni di storia antropocentrica è una missione estremamente ardua, ma probabilmente è l’unico modo per capire chi siamo e dove stiamo.
Concludo con una citazione del grande Tiziano Terzani: «Solo se riusciremo a vedere l’universo come un tutt’uno in cui ogni parte riflette la totalità in cui la grande bellezza sta nella sua diversità, cominceremo a capire chi siamo e dove stiamo. Altrimenti saremo solo come la rana del proverbio cinese che, dal fondo del pozzo, guarda in su e crede che quel che vede sia tutto il cielo».
Scritto da Francesco Rosso.
Questo articolo è apparso sulla rivista Vivi Consapevole 60, marzo/maggio 2020.
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